Gennaio 2016: Contro la città vuota

Viaggio nella città commissariata.
Tra speculazione, mercificazione, spettacolo e movida.

 

La notizia è di quelle che fanno accapponare la pelle: l’Atelier Autogestito ESC è sotto serio pericolo di sgombero. La vicenda si aggiunge a quelle già in corso da almeno un paio d’anni – dal Corto Circuito agli spazi concessi al vasto mondo dell’associazionismo romano.

Il messaggio politico-istituzionale parla chiaro: resettare tutte le esperienze, cancellarle con atti amministrativi attraverso la forza pubblica. In mezzo non c’è alcuna intermediazione, la politica è assente o astutamente incapace di agire e determinare.

La situazione Romana è fatta di un manipolo di magistrati posti a governare/gestire la città in attesa della riorganizzazione democratica e della conseguente tornata elettorale.  Commissari, sub-commissari, prefetti, questori: attori della messa in scena del decoro, spettacolo di concetto astratto che trova nel presunto civismo la testa d’ariete per sfondare la quarta parete.
Mentre si assiste ad uno scientifico e sistematico attacco agli spazi culturali, sociali e finanche politici, la sonnacchiosa città metropolitana è impegnata alla lotta contro il manifesto abusivo, a curare aiuole, a fare i conti sugli scontrini, a chiedere più centro in periferia, ovvero luci, telecamere, pattuglie.
Espressioni come ‘retake’ o ‘roma fa schifo diventano così, allo stesso tempo, autori, comparse, pubblico, promoter dello spettacolo. La ridefinizione della città e dei suoi spazi, all’insegna degli interessi speculativi-finanziari, mistificata ad arte dall’ideologia del decoro e dalla retorica del degrado, passa per il dirottamento dell’attenzione circa le reali responsabilità: il rovesciamento di causa ed effetto e la costruzione di una certa rappresentazione-narrazione della città, di fatto, finiscono per promuove i “valori”, o i motivi, dietro al collasso della città, ripresentandoli come soluzioni: privatizzazioni e svendite -vedi Ama, Atac, canili e asili nido.

La regia è dunque da scovare altrove, in quella logica da partito della nazione secondo cui la formula efficienza (leggasi privatizzazioni) – merito (leggasi esclusione)  – bando pubblico (leggasi “fatti i criteri ecco l’inganno”) sia la chiave della felicità sociale (leggasi come più consumi, più lavoro gratis, più banche con più case).

Il bando pubblico è propagandato come la ricetta per raddrizzare la crisi e infondere nella popolazione la giusta dose di partecipazione, trasparenza e pax democratica.
In mano agli attori di cui sopra è dunque lo strumento giusto per interrompere tutte quelle esperienze che per mille e mille motivi rappresentano a Roma un punto di riferimento sociale, umano, politico, culturale, lavorativo.
E non solo: centri sociali, spazi autogestiti hanno saputo creare intense relazioni con il territorio nel quale si trovano, fornendo veri e propri servizi e mutualismo.
Questo fa paura, eccedenza che crea.
Toglierci di mezzo è azione politica in quanto manifestazione evidente che un altro modo di agire è possibile, una minaccia alla gestione – commissariale o meno – della città, sventata a colpi di assegnazioni.

Si vogliono ridefinire luoghi e posti praticando del “copia&incolla” come nel caso dell’ex-Dogana di San Lorenzo. Uno spazio che ben esemplifica l’intreccio di livelli e forme della speculazione, dove espressioni culturali svuotate diventano “eventi” e da ultimo strumenti di legittimazione dell’operazione in atto. Non ci dimentichiamo, infatti, che il complesso dell’ex-Dogana, un’area ex-demaniale, è al centro di una grossa operazione di svendita del patrimonio pubblico con la cessione tramite Cassa Depositi e Prestiti a fondi immobiliari privati per l’attuazione di un piano di “riqualificazione e di valorizzazione” (leggasi “vendita”) – tra l’altro oggetto di un’interrogazione parlamentare per l’incongruenza tra valore di mercato e prezzo pagato.
In attesa della riconversione a centro commerciale, lo spazio vive una nuova (temporanea) vita: qui il merito dei gestori è talmente “fuori concorso” che il bando non è stato necessario. Si arriva alla contrattazione diretta con Cassa Depositi e Prestiti (!) e ad un affitto. Da settembre è ritrovo di movida: si sperimenta il supermercato del divertimento. Consultando la programmazione ci si rende subito conto dell’accozzaglia di eventi – dal seguito certo – messi in piedi con la sola logica dell’arrivare-interessare-trascinare un numero quanto più alto di ‘consumatori’, assicurando una rendita agli organizzatori. I (presunti) costi culturali continuano ad esser scaricati sul pubblico: la speculazione è inseguita con gli accessibili dieci euro d’ingresso e altrettanti per il consumo interno.

Quasi una nuova moda a Roma, lanciata da un gruppo di promoter che gestisce la scena della movida romana, quella di “riaprire temporaneamente”, a pagamento, alcuni luoghi della città, fino a poco tempo fa… pubblici! Con una comunicazione sapientemente patinata gli edifici destinati alla speculazione diventano “location esclusive” dove va in scena la fiera dell’effimero, del provvisorio, della fuffa. La speculazione si fa spettacolo, e il luogo una scenografia da parco giochi, come se non fosse nostro, da difendere. Il velo di mistero sul futuro dello spazio si fa suspense e i “post” sui social network, sostituendosi all’ufficio tecnico del Comune, promettono di “svelare” la destinazione futura dello spazio, quasi fosse un quizzettone. Così la “festa di chiusura” per l’ex palazzo del Poligrafico e della Zecca dello Stato (uno degli immobili ceduti nello stesso pacchetto della Dogana) ha preceduto di poco la sua vendita ai cinesi e l’avvio della trasformazione in albergo extralusso.

È l’ennesimo modo per fare soldi giocando sulla falsa dicotomia degrado/decoro. Il marketing si spinge talmente in là da invertire i princìpi: l’evento culturale serve a creare attenzione attorno al luogo fisico, oggetto di speculazione. La polarizzazione dell’opinione pubblica, il “successo” sociale aggregativo basato su un corollario metropolitano della famosa legge del beduino – “il locale del mio amico è il mio locale” – mostrando le mille possibilità degli spazi per far soldi, è il vero processo di valorizzazione che si insegue. Se devi vendere, devi far conoscere.
Se CdP può dunque affidare il patrimonio immobiliare pubblico senza bando ai soliti noti della movida romana, il Comune di Roma punta a smantellare sia il patrimonio immobiliare che quello culturale, relazionale, solidale e resistente, attraverso gli strumenti amministrativi del “riordino del patrimonio in concessione” all’insegna della trasparenza, della regolarizzazione e della legalizzazione. Poco importa che siano letteralmente buttate in strada esperienze, ad esempio, come quella del Baobab, che nella scorsa estate si è trovato a dover gestire decine di migliaia di migranti in fuga per salvarsi la vita.
È solo grazie all’impegno degli abitanti di San Lorenzo e dei compagni e delle compagne degli spazi sociali e autogestiti presenti nel quartiere e non solo che, unendo gli sforzi con i volontari del Baobab, si è sopperito alla totale assenza di un sistema dell’accoglienza a Roma.

Di più: il comune di Nieri&Peciola sotto la giunta Marino, sgombera (maggio 2015) con le ruspe (quelle stesse ruspe che pochi giorni prima avevano raso al suolo Scup – esperienza pluriennale di mutualismo ed inclusione nel territorio)  un insediamento abitativo di migranti che da una decina d’anni vivono tra vecchie roulotte e baracche. Sgombero veloce, uso della forza pubblica (anche nei giorni successivi dove un gruppo di persone si era stabilito alla stazione tiburtina), assenza di un piano B ed ecco confezionata l’emergenza migranti: il Baobab viene investito da umana disperazione, gli assessori balbettano ricette solutive, i politicanti di ogni colore li vogliono aiutare solo a casa loro, i giornali fanno a gara di sparo al peggior titolo etnico su qualche fatto di cronaca – nera possibilmente.
L’intento è palese: si vogliono chiudere gli unici spazi che hanno saputo dare una risposta sociale e culturale al deserto in cui stanno trasformando la città. Si vogliono catturare le pratiche culturali, svuotarle, pacificare il loro portato conflittuale e realmente innovativo.

Da una parte gli sgomberi, dall’altra la “sussunzione” delle nostre pratiche e dei nostri linguaggi culturali. Se Cassa Depositi e Prestiti parla di best practice e il bando del patrimonio del Comune si rifà ai “beni comuni”, non ci si meraviglia, se l’attività culturale a Roma è ridotta a mera gestione degli eventi e delle attività ad essi collegati, quali bar, ristorazione, sicurezza, promoter.
La programmazione è legata ad un circoscritto gruppo di personaggi – perlopiù legati a società di comunicazione che disegnano l’offerta culturale a Roma, gestendo eventi che vanno dal Rock-in-Rome festival, al villa Ada festival, ai concerti di capodanno, sino ai tanti locali etichettati come circoli culturali.

È l’elemento relazionale che si mette a valore, monetizzando l’agenda dei contatti che ciascun direttore artistico è in grado di metter sul piatto dell’evento. Si creano società di scouting, di promoter di artisti internazionali e non, che, con la scusa di voler propagandare l’arte degli iscritti, sarebbero le società meritevoli secondo gli indici di un qualunque bando (di gestione) culturale. È immediato leggerci una forma di monopolio (di fatto): riempiendo locali e grandi eventi dello stesso spettacolo-dj-set-live music, si preclude l’accesso a chi ancora un giro non lo ha.

A questo fa da compare e complice il monopolio rappresentato dalla SIAE, società autorizzata istituzionalmente alla protezione e intermediazione dei diritti d’autore su tutto il territorio nazionale.
Una recente sentenza (2014) della Corte di Giustizia ha riconosciuto la compatibilità dei monopoli nazionali di intermediazione con il diritto dell’Unione europea. In sostanza la Corte stabilisce che l’articolo 16 della direttiva UE 2006/123 sulla “libera prestazioni di servizi” – possibilità di scegliere una qualunque società di servizi all’interno dei paesi membri – non si applica proprio “ai diritti d’autore e diritti connessi “, rafforzando la legittimità (legale) della SIAE stessa.
L’apparato oppressivo della SIAE costringe qualunque gestore di un piccolo-medio locale a dover far i conti con il mercato (drogato da quel marketing di cui sopra); puntare, così, più al numero di persone che alla sperimentazione di gusti, stili, arte a rischio di bassa consumazione. Basti pensare che per un locale pubblico far musica dal vivo vorrebbe dire pagare preventivamente i diritti d’autore, in base alla capienza numerica massima prevista per quel posto. Il campo di azione della Siae è vastissimo, includendo feste private – matrimoni e persino memorie digitali, sulle quali esiste una tassa, già compresa nel prezzo del dispositivo, per la riproduzione privata ad uso personale di opere coperte da copyright. Il decreto Valore e Cultura, ad opera dell’ex ministro Bray, ha semplificato alcune procedure amministrative non toccando assolutamente l’ambito del diritto d’autore, lasciando inalterate le pratiche Siae.
Accanto all’opera di collecting, completa il mosaico, il ruolo di sorveglianza delle violazioni del diritto d’autore, accertamento e riscossione dei tributi che la Siae svolge per conto dello Stato, enti pubblici o privati. Non è un caso che i primi segnali di guerriglia amministrativa nei confronti di centri sociali e spazi autogestiti siano partiti da periodiche visite e vessazioni di funzionari SIAE alla ricerca di un nome al quale far pagare tasse e balzelli per le attività svolte; incapaci di distinguere la differenza esistente tra un biglietto e una sottoscrizione di autofinanziamento; incapaci di immaginare l’esistenza di altro motore che non sia mero profitto economico.

Decoro, bando e casus belli di mafia capitale stanno servendo a ridisegnare la mappa delle relazioni nei diversi settori d’interesse (politico, economico, sociale, culturale) mantenendo intatta la struttura -di potere. Gli atti amministrativi occupano il luogo della politica, usati finanche per cortei e presidi risolvendosi in centinaia di multe da migliaia di euro.

In questo quadro, nella città dei tagli, della carenza cronica di servizi, di spazi e di risorse, viziata dalla gestione decennale che ha fatto della corruzione un sistema, adesso soffocata, svenduta e privatizzata sotto la cappa della gestione commissariale, San Lorenzo si sveglia con l’ennesima minaccia di sgombero di uno spazio che in 11 anni di attività è diventato punto di riferimento imprescindibile per un’altra idea di città.

Il Nuovo Cinema Palazzo, nell’esprimere solidarietà ai compagni e alle compagne di ESC, rivendica, ora e subito, margini di sovranità diretta per una costruzione effettiva del comune. Le esperienze di autogestione parlano direttamente alla società, compongono relazioni che, attraverso pratiche collettive, sono in grado di produrre un altro modo di creare, inventare, sperimentare forme di autogoverno, di volersi interessare a ciò che è nostro, di rivendicare autonomia, di costruire la città.

Roma non è un vuoto a rendere.

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