Luci della città. Stefano Cucchi

di Pino Carbone e Francesca De Nicolais
con Francesca DeNicolais
regia Pino Carbone
produzione o.n.g. Teatri, ex Asilo Filangieri
Venerdì 21 novembre 2014 – ore 21:30

Il personaggio del vagabondo è arbitrario e comodo. Qualcuno è vagabondo per qualcun altro. Qualcuno è sempre al margine. Al margine di quello che è stato stabilito come centro. Si è sempre più in basso di qualcuno. Fuori dalla grazia di Dio e dalla giustizia. Ognuno ha il diritto di sentirsi vagabondo, di rimanere o mettersi al margine, di stare un po’ più in basso. Il vagabondo sono anch’io, anche lui, anche tu. E tu. E tu.

Charlie Chaplin è un attore acrobata che interpreta un personaggio che ripetutamente fallisce: un clown.
Chaplin inventa Charlot per raccontare l’impossibilità e l’imprevedibilità della perfezione. Inventa Charlot per raccontare la grazia del fallimento. Profondamente, meravigliosamente umano. Charlot l’improbabile boxeur. Che si aggrappa alle corde per sottrarsi all’avversario. Che si ripara dietro l’arbitro, più per far ridere il pubblico che per nascondersi. Che si stringe forte al suo avversario per stanchezza e lo fa diventare poi un abbraccio affettuoso. Charlot che scappa sul quadrato come se fosse una lunga strada, per aggrapparsi di nuovo alle corde quando si accorge che lo spazio è finito. Chiude gli occhi come un bambino, per non vedere e sperare di non essere visto. Diventa ancora più piccolo e indifeso. Si chiude nella sua ottusa solitudine. Aggrappato ad un’idea di poesia. Una idea: la sua.

E intorno il mondo in bianco e nero e muto. Intorno calci e pugni perché sei un reietto, sei la feccia della società, sei un tossico di merda, sei nelle nostre mani ora, nelle mani dello Stato.

E tu, Stefano, per lo Stato non eri nessuno. E neppure per noi, fino a che non sei diventato martire e simbolo. Stefano che forse si aggrappa alle sbarre per sottrarsi all’avversario. Che forse si ripara dietro il lavandino, e non per far ridere il pubblico. Che forse si stringe forte ai suoi avversari, anche lui per stanchezza. Stefano che scappa nel quadrato della cella come se fosse una lunga strada, per aggrapparsi di nuovo alle sbarre quando si accorge che lo spazio è finito. Chiude gli occhi come un bambino, per non vedere e sperare di non essere visto. Anche lui diventa ancora più piccolo e indifeso. Si chiude nella sua ottusa solitudine. Aggrappato ad un’idea di giustizia. Una idea: la sua.

La vicenda di Stefano Cucchi è emblematica di qualcosa che non va, di qualcosa che ci riguarda. Che dovrebbe riguardarci tutti, se avessimo occhi. Se non fossimo come la fioraia cieca, da ingannare con il rumore di una portiera che sbatte. Come succede a Charlot in “Luci della città”. Stefano, le luci si accendono tardi, di notte, a Tor Pignattara. Di notte. A Tor Pignattara. E’ ancora notte. E’ notte.

L’idea di messa in scena si muove tra ironia e rabbia.
Si basa soprattutto sul lavoro fisico ed emotivo dell’attrice in scena. Che lavorando su due personaggi contemporaneamente ne crea un terzo, che dei due conserva soprattutto la poesia e la drammaticità che li accomuna. Un lavoro sul clown e sull’umano. Uno studio sul clown e quindi un lavoro sull’umanità.
Nell’epoca in cui tutti reclamano spiegazioni razionali, la parola reclama il suo diritto ad essere anche parola poetica. Anche invocazione. Anche bestemmia. Anche ritmo o soltanto rumore. La parola rivendica il suo diritto alla scostumatezza. I peggiori delitti si sono consumati in nome della buona educazione.

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