Quel diritto all’appropriazione

di Ugo Mattei

da Il Manifesto 02.03.2013

Un percorso di lettura sulle proposte legislative che hanno visto la partecipazione di giuristi e movimenti sociali.
Da qui l’iniziativa di riaprire i lavori della cosiddetta «Commissione Rodotà». Il contesto politico in cui oggi viviamo può considerarsi caratterizzato dalle convulsioni terminali della democrazia rappresentativa. La globalizzazione economica e il debito pubblico hanno così indebolito le istituzioni parlamentari da renderle irrilevanti. La legislatura che si è appena conclusa, la prima nella storia d’Italia in cui i parlamentari non sono stati votati ma piuttosto cooptati dalle segreterie di partito, ha mostrato in modo inequivocabile l’inutilità del Parlamento italiano nell’ambito degli attuali rapporti di forza. 630 deputati e 315 senatori non hanno fatto altro che ratificare decisioni prese altrove, votando fiducie a un Governo che a sua volta riceve ordini da istituzioni globali (prima fra tutte la cosiddetta Troika) prive di legittimità se non quella dei «poteri forti». Non un solo parlamentare ha legato il proprio nome a qualche importante innovazione legislativa. Anzi, il parlamento ha votato l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione.

Lo Stato patriarcale
Nonostante questa vacanza dei legislatori ufficiali, negli ultimi cinque anni in Italia non sono mancate le trasformazioni significative di tessuto giuridico, coerenti con il disegno riformista previsto in primis dalla Costituzione, che contiene un obbligo per tutte le istituzioni della Repubblica (incluse dunque quelle amministrative e giudiziarie) di rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano di fatto il principio di uguaglianza. Come ben noto, tali ostacoli sono legati principalmente alla diseguale distribuzione delle ricchezze che trova nella proprietà privata il suo massimo baluardo. Non è quindi un caso che la principale trasformazione giuridica sia legata all’irrompere sulla scena del nostro ordinamento giuridico di una nozione, quella dei beni comuni, che strutturalmente è «l’opposto della proprietà». La sua nascita come istituzione del diritto positivo è avvenuta in punta dei piedi, con la delicatezza di un figliolo non desiderato da un patriarca autoritario e che è nato a suo dispetto. È noto che la prima definizione giuridica dei beni comuni come quelli «che producono utilità funzionali al soddisfacimento di bisogni fondamentali della persona» è dovuta alla ormai celebre Commissione Rodotà, la cui proposta di Legge Delega per la riforma del decrepito Libro III del Codice Civile (Della Proprietà), pur presentata nei «modi e nelle forme» previste dalla Costituzione, non è mai stata discussa. Ciononostante, a conferma di quanto i giuristi ben sanno, e cioè che ridurre il diritto alla legge formale è solo una «mitologia giuridica della modernità» (per dirla con il grande storico e giudice costituzionale Paolo Grossi), i beni comuni si sono oggi radicati nel nostro diritto positivo e hanno iniziato un lento processo di crescita istituzionale. Infatti, anche grazie alla viabilità politica guadagnata nella campagna referendaria per l’«Acqua Bene Comune», centinaia di pagine di dottrina sono state dedicate alla nozione di beni comuni e la Corte di Cassazione l’ha consacrata addirittura a Sezioni Unite, in una splendida decisione del febbraio 2011. Molti statuti di enti locali inoltre hanno incorporato la nozione di beni comuni della Commissione Rodotà, per significare che la logica del profitto non può permeare certi servizi pubblici, seppellendo definitivamente quella formalistica distinzione fra beni e servizi, dietro cuisi era arroccata per anni la cultura amministrativa dello «Stato regolatore». A Napoli, ad esempio, un’interpretazione dell’articolo 2500 del Codice Civile (trasformazione eterogenea), finalmente coerente con l’esito referendario, ha consentito, dopo quasi due anni di lavoro, la trasformazione di una Spa a capitale municipale (Arin Spa) in Azienda Speciale Partecipata di diritto pubblico (Abc Napoli) offrendo un modello destinato a far proseliti. La particolarità della nuova società è il suo statuto, definito «generativo» e non più «estrattivo», per la sua adesione proprio ai principi della Commissione Rodotà. È una novità assoluta nel nostro diritto pubblico che spezza quell’equazione criptica «proprietà pubblica = potere sovrano di un ente pubblico», con cui i partiti hanno interpretato, sia a livello nazionale che a quello locale, il governo delle aziende pubbliche almeno dai tempi di Fanfani. Si è posto così in essere un processo destituente delle sedi rappresentative, con consegn a del governo dei beni comuni direttamente alle comunità di utenti e lavoratori, rappresentati tanto in Consiglio di amministrazione quanto in un Comitato di Sorveglianza, volto a verificare il perseguimento della vocazione ecologica sociale e partecipata del governo idrico partenopeo. La definizione di beni comuni della Commissione Rodotà è stata recepita anche dall statuto della Fondazione «Teatro Valle Bene Comune», questa volta nell’ambito di un suo utilizzo costituente, avviato tramite un momento di rottura formale con l’ordine costituito quale quello di un’occupazione orgogliosamente contra legem ma non contra ius. Del resto, l’intera tradizione comunale dell’Italia tardo “medievale si basa su atti formali di fratellanza nella rottura con un ordine sovrano odioso, quella coniuratio che anche etimologicamente indica tanto la congiura (atto illegale) contro un ordine giuridico costituito (quello signorile feudale), quanto il giuramento fatto in comune, per la costruzione di un nuovo ius (atto costituente) fondato su una libertà uguale. La cosìddetta «rivoluzione dei beni comuni» pone inoltre la necessità di definire un nuovo statuto della cittadinanza. Per questo, va alimentata la tendenza ad occupare (come avvenuto a Napoli) ogni opportunità giuridica per così dire generativa , che sia cioè capace di sostituire il la dimensione predatoria delle attuali istituzioni tanto pubbliche quanto private.

Opportunità da cogliere
È in questo quadro che va segnalata la ripresa dei lavori della Commissione Rodotà, che si concentrerà sullo statuto dei diversi beni comuni intesi nel senso più ampio (cultura, acqua, territorio, cibo, risparmio, telecomunicazioni e internet, processi partecipativi, servizi pubblici ecc.), traendo legittimazione diretta dai movimenti e dalle realtà in lotta che più legittimamente rappresentano i diversi beni comuni. Parte così, un processo legislativo alternativo, sotto forma di commissioni legislative aperte, autoconvocate in sede redigente , composte di accademici di diversa competenza e di attivisti dei movimenti sociali, volte a normare in modo completo e coerente con i dettami della Costituzione le diverse tipologie di beni comuni. Questo lavoro verrà condotto dalla Commissione Rodotà Aperta (o Occupata), in modo itinerante (come gli antichi justices in erie), con tappe nei luoghi più significativi delle diverse lotte e delle diverse esperienze di quell’Italia dei beni comuni che già esiste. Questa occupazione democratica del processo legislativo vuole restituire dignità e respiro culturale a quella scienza della legislazione, di cui un tempo l’Italia fu maestra, ma che è oggi declinata fino all’analfabetismo giuridico di ritorno. La «Commissione Rodotà Aperta», porterà il frutto del proprio sforzo al nuovo Parlamento, nel quale potrebbe darsi siedano più deputati e senatori sensibili nal tema dei beni comuni e pronti a cogliere l’opportunità che deriva dal poter lavorare a far passare (con maggioranze trasversali e inedite) materiali legislativi che saranno già legittimati dal basso sia sul piano democratico che su quello sapienziale. Questa potente tenaglia che può costituirsi fra movimenti di cittadinanza attiva e cultura accademica, presenterà innanzitutto la Legge Delega per la Riforma del Codice Civile (Progetto della Commissione Rodotà attualmente in Senato). Se questa riforma sarà approvata dal nuovo Parlamento, sarà uno strumento prezioso di difesa contro il saccheggio neoliberale dei beni comuni. Potrebbe così aprirsi un’inedita fase di rinascimento anche legislativo (e non solo nel  diritto vivente), quanto mai indispensabile per il nostro paese.

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Vi ricordiamo che l’8 marzo prenderà il via il ciclo di seminari Dalle pratiche del «comune» al diritto alla città, in cui tenteremo di interrogare i regimi di proprietà mettendo al centro il tema dei beni pubblici, le pratiche collettive e la produzione di diritto nell’orizzonte del vivere urbano. 

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