La cultura della galera

Nel campo rifugiati di Deishe andare in galera è una tradizione. Il ragazzo che incontriamo ci è andato che aveva appena 15 anni e ci è rimasto per due anni e mezzo. Dieci soldati hanno sfondato la porta di casa sua, alle 2 di notte, e gli hanno chiesto: “che ci fai qui?” – “sono a casa mia, dormivo, domani devo andare a scuola” – “dov’è la pistola?”. Nessuna pistola, ma non importa, tre ore dopo era in galera, interrogato per quattordici ore di fila da una persona, poi da un’altra e poi da un’altra ancora. La domanda ricorrente: “perché sei palestinese?”. Se sei un detenuto palestinese finisci in una cella di 2 metri per 1. In prigione fa freddissimo. Oppure fa caldissimo, se sei in una tenda in mezzo al deserto infestata da serpenti: un’alternativa piuttosto economica a disposizione del sistema penitenziario israeliano. Indossi una divisa che appositamente non è della tua taglia. Da mangiare ti spetta un pomodoro al giorno. Una luce gialla illumina la tua cella, giorno e notte, che alla fine non sai più se è giorno o notte. La cena te la portano di mattina, il pranzo te lo portano nel cuore della notte e, se è buio, nemmeno vedi che il panino che ti passano dall’apertura sotto la porta brulica di insetti. La tua famiglia la vedi una volta al mese, per quaranta minuti. I secondini ti parlano in ebraico e tu parli arabo. Ti tocca imparare. Passano anni. Devi resistere. Come fuori, così dentro la galera. Devi fare un programma, e rispettarlo. Ogni giorno. Per non perdere la testa. Ma ogni piccola cosa è una battaglia. Anche sedersi, perché per farti dispetto i secondini ti buttano secchiate d’acqua sul pavimento. Il pavimento è bagnato e devi cambiare il tuo misero programma di sopravvivenza. Starai in piedi. Poi arriva il giorno in cui esci, ci racconta un altro ragazzo, e i tuoi amici organizzano una festa per la tua liberazione, ma qualcuno fa la spia, arrivano i soldati e arrestano tutti. Di nuovo in galera. Senza motivo. La maggior parte dei detenuti palestinesi è colpevole di reati politici, d’opinione, o semplicemente di essere palestinese. Molti dei detenuti palestinesi non sono criminali, è gente colta, che studia, legge, scrive. Pensa al futuro, lavora per il futuro, e rinuncia all’ora d’aria perché ha da fare. Deve scrivere. Scrivere articoli o messaggi politici nelle prigioni dei palestinesi è vietato. Allora si scrive su piccoli e sottili fogli di carta, come le cartine per le sigarette, poi li si ripiega mille volte e li si avvolge con la plastica del pacchetto, che si sigilla con l’accendino. Pillole ad alto contenuto politico passano di mano in mano ad altri detenuti che ne ricopiano il contenuto. Così le pillole si moltiplicano. Oppure si ingoiano. In galera mangi la cultura. Tre anni di detenzione sono come tre anni di università. Impari chi sei, cosa combatti, per cosa combatti. E impari a rifletterci sopra, in maniera approfondita, profonda. Quanto più sei in uno stato di difficoltà e di miseria tanto più senti il bisogno di cultura, di educazione. I ragazzi palestinesi te lo dicono continuamente: education is freedom. E’ scioccante pensare che da noi la cultura e l’educazione siano sempre più svuotati di senso. Perché qui, invece, sono efficaci armi per difenderti dall’oppressore che ti vuole succube, debole, perché inconsapevole dei tuoi diritti e della tua forza. Abbiamo visto un’intervista a Juliano Mer-Khamis, fondatore del Freedom Theatre di Jenin, assassinato nel 2011. Ci penso e ci ripenso, mi ha svelato la chiave: la terza Intifada – diceva – sarà culturale.

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