Abbiamo fatto un incubo: Hebron

Hebron è un incubo collettivo. Il punto più basso della nostra discesa nella Palestina profonda. Ci arriviamo di pomeriggio. L’autobus ci lascia all’inizio di Shuhada street, la via che attraversa H2, Hebron 2, il cuore della città palestinese dove vivono oggi 400 coloni ebrei israeliani protetti da 4000 soldati armati fino ai denti e i pochi palestinesi che resistono nelle loro case, pagando ogni giorno un prezzo inimmaginabile. La strada è sbarrata da blocchi squadrati di cemento e poco oltre da un container messo di traverso, un check point. A terra ci sono pietre, e il container infatti è parecchio ammaccato. I palestinesi non possono entrare in H2 e, se hanno deciso di rimanervi dentro, difficilmente possono uscire. Tra il 2000 e il 2003 sono stati costretti a rimanere chiusi dentro casa, con il permesso di uscire solo per un’ora al mese, per fare la spesa. Alcuni giorni fa una donna palestinese è morta per un attacco di cuore, perché nemmeno l’ambulanza può entrare qui. Solo gli israeliani possono entrare, e noi internazionali. Nel container ci sono due metal detector e tre soldati che ci controllano i passaporti. Uno dei tre è talmente armato che ci fa ridere. La risata però dura poco, perché fai un passo e sei su un altro pianeta. La strada prosegue deserta. Negozi sbarrati. Le finestre delle case al primo piano, sbarrate. Una bandiera di Israele sventola fiera su ogni casa conquistata. Diresti che è il set di un film di guerra. Poi ci viene incontro, nel silenzio di questo deserto, un plotone di ragazzi ebrei ultra-ortodossi con l’abito nero, il cappello nero e i riccioli lunghi che incorniciano il viso. Stanno seguendo una visita guidata, fa caldo e mangiano tutti un ghiacciolo rosso. L’immagine è surreale. Nel pianeta dell’assurdo ci accoglie Hashem, uno di quei palestinesi che resistono in Hebron 2. Si unisce al nostro gruppo uno studente tedesco, ci spiega che ha visitato Israele in lungo e in largo. Hashem lo gela. Questa non è Israele, questa è Palestina. La tensione che si respira qui è altissima. Ti senti in trincea, Hashem vive in trincea con moglie e sei figli, da sempre. Ci sono soldati ad ogni angolo di strada e tutti ci chiedono i passaporti. Sette volte in tre ore, per darci fastidio. Sanno chi siamo. Gli internazionali qui sono fondamentali. Come testimoni in questa prigione a cielo aperto, ma anche come protezione. Passiamo davanti ad una scuola palestinese e Hashem ci racconta che fino a poco tempo fa ogni mattina gli internazionali scortavano i bambini fino a scuola, perché altri bambini, figli dei coloni, li aggredivano tirandogli addosso pietre mentre cantavano inni razzisti. La scuola è circondata da un’alta ringhiera, la porta celeste è stata ridipinta da poco. Sotto alla vernice si legge ancora una scritta: gas the arabs. I nostri passi sono lenti, sentiamo il peso di questa inumanità e sappiamo che dovremo farci i conti anche noi, perché ora l’abbiamo vista. Sui muri altre scritte allucinanti: kill the arabs, free Israel…Le porte delle case conquistate dai coloni sono segnate con la stella di David dipinta di nero. Mi ricorda qualcosa: le fotografie in bianco e nero delle case degli ebrei deportati che i nazisti segnavano allo stesso modo. Cerchiamo di consolarci con l’idea che gli ebrei che hanno deciso di presidiare questa parte della città sono invasati, sono pazzi, ed in parte sarà anche vero, ma chi sostiene militarmente ed economicamente da oltre cinquant’anni questa assurda e inumana colonizzazione? Sono tutti pazzi? No, non torna. E sprofondiamo nella confusione. Incontriamo un signore palestinese di 64 anni che ne dimostra 80. La sua casa era vicino alla scuola. Prima gli hanno offerto 3 milioni di dollari per sloggiare. Poi lo hanno cacciato con la forza e lui si è accampato per anni nel vicino cimitero, subendo aggressioni di ogni genere che hanno lasciato tracce sul suo corpo malandato. Il cimitero è l’unico passaggio consentito ai palestinesi per raggiungere la moderna Hebron, che cresce attorno alla città antica schiacciata dall’assedio militare. I palestinesi che rimangono in H2 sono fantasmi. Non possono uscire per andare a lavorare, non sono sicuri nelle loro case, sono controllati ogni giorno con qualunque pretesto e fermati o interrogati per mezz’ora o per tutta la giornata, senza un criterio. Hashem ci saluta e ci dà appuntamento a casa sua, per cena. Nel frattempo visiteremo il mercato palestinese e la moschea con un giovanissimo ragazzo che sta imparando a fare la guida turistica. Il mercato, del resto, è fuori dal check point e Hashem non ci può venire. Il suk di Hebron è desolante. Poche le botteghe aperte, che chiudono perché nessuno compra: pochi i palestinesi che vivono ancora qui e pochissimi i turisti che girano da queste parti in cerca di spezie o tessuti. Una grata metallica e dei teloni di plastica proteggono la via del mercato dal lancio di immondizia e pietre: ai primi piani delle case che affacciano sul mercato, ci spiegano, abitano i coloni ed è questo il loro modo per rendere inumana la vita quotidiana della comunità palestinese che resiste. Risaliamo verso casa di Hashem. Per arrivarci facciamo un sentiero nella sterpaglia. Qualche tempo fa l’accesso alla sua casa è stato chiuso e solo grazie ad Amnesty International e ad una sentenza della corte internazionale è riuscito ad ottenere l’autorizzazione ad aprire questo sentiero tortuoso. Immediatamente sopra casa sua abitano coloni. Ti aspetteresti di vedere palazzine o villette relativamente decenti e invece scopri che, pur di abitare qui e mantenere l’assedio, le famiglie di ebrei coloni si prestano a vivere per decenni in un container prefabbricato di ferro arrugginito con balconi dalle ringhiere raffazzonate in legno e metallo, un angolo di baraccopoli. In questo estremo avamposto, proprio sopra la casa di Hashem, abitano due VIP della comunità ebraica di Hebron. Uno è il fondatore del JDL, Jewish Defense League, la stessa sigla che trovi sui graffiti che in città incitano alla violenza e all’odio contro gli arabi. Un documentario della BBC ha mostrato l’interno della sua casa; nel soggiorno campeggia un poster: I’ve killed arabs. Did you? L’altro VIP ha una faccia a me nota, è quel soldato di nome Shalit che fu rapito a Gaza qualche anno fa e poi liberato. Ricordo la sua faccia perché per mesi un suo ritratto è rimasto appeso sul palazzo del Comune di Roma. Deve aver perso la testa in quella brutta esperienza, penso, quando Hashem ci racconta che è tra i più violenti che quotidianamente lo insultano e lo aggrediscono. La moglie di Hashem nel frattempo ha messo in tavola una cena abbondantissima: riso con ceci e anacardi tostati, pollo, insalata di pomodori, cetrioli e melograno. Hashem non mangia, fuma e basta. Ti si siede vicino e tira fuori dalla tasca l’unica piccola arma che ha deciso di usare in questa estenuante guerra di resistenza. Gliela ha regalata un’associazione internazionale. E’ un telefono cellulare con telecamera e schermo ad altissima risoluzione che Hashem tiene sempre con sé. Condivide sul web centinaia di video che testimoniano l’assurdità e la violenza della sua vita quotidiana. Anche quando ci accompagna verso il check point, alla fine di questo pomeriggio surreale ma fin troppo reale, mentre i soldati ci fermano e ci controllano i passaporti per l’ennesima volta e poi fermano e controllano anche lui, vedi nel buio della sera una lucina nella sua mano, la telecamera è accesa, sta riprendendo tutto. Perché si sappia cosa succede ad Hebron 2, e per non sentirsi disperatamente solo. 

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