Terminal 5

Non tutti sanno che per andare negli Stati Uniti o in Israele partendo da Roma l’aeroporto di Fiumicino dispone di un terminal separato, il Terminal 5. Io non lo sapevo.

Arrivati al marciapiede delle partenze si aspetta una navetta speciale che in qualche minuto ti porta ad un capannone isolato piuttosto spoglio. Niente bar, niente negozi e una curiosa quantità di polizia. Volevo prendere un caffè, non ci riuscirò. Volevo comprare un libro, niente libro.

Dentro c’è gente che aspetta in fila per il check-in, con i bagagli, divisa in due gruppi. Ma non ci sono i soliti banconi per il check-in, non ci sono arredi, solo transenne che dividono i passeggeri in due gruppi. E un camminamento soprelevato che gira intorno alla sala su cui passeggiano militari con un mitra al collo mentre altri sorvegliano chi entra e chi esce da torrette con vetri antiproiettile. Sono pietrificata. Non sono ancora in Israele. Sono a Roma. Basta poco per rendersi conto che il gruppo di passeggeri più numeroso, quello che procede lentissimo, corrisponde alle compagnie dirette in Israele. Aspetto. Passa mezz’ora. Sono l’ultima della fila. Sono già stata in Palestina e ho già assaggiato le leggi dell’ospitalità che vigono nell’aeroporto di Tel Aviv. Sono preparata. Stavolta non ho portato libri sul conflitto israelo-palestinese. Non ho magliette con slogan politici. Non dirò che sono diretta in Palestina. Vado in Israele, a fare la turista. La spiaggia di Tel Aviv, le discoteche. E poi Gerusalemme: non c’è posto più interessante per fare una bella vacanza estiva. Sono pulita, dovrebbe andare tutto liscio.

E invece, per la seconda volta, assaggerò le leggi dell’ospitalità israeliana. Stavolta, però, rimanendo a Roma. Mi interrogano per due ore. A farlo non è il personale dell’aeroporto. Sono giovanissimi ragazzi israeliani, cha parlano italiano poco e male. Dove vai. Perché ci vai. Perché ci torni. Chi conosci laggiù. Chi hai conosciuto. Conosci palestinesi, iracheni, siriani, afgani, turchi. Dimmi esattamente che giro intendi fare. Dove dormirai. Chi incontrerai. Cosa farai per venti giorni, sono troppi per fare il turista in Israele. Che files hai nel telefono, fammi vedere. Le foto, una per una, i numeri di telefono, la musica. Poi mi chiedono di firmare un foglio, scritto in ebraico e in inglese, che li autorizza a controllare tutti i miei bagagli lontano dalla mia vista. Mi tocca acconsentire e i miei bagagli spariscono. Ancora domande, le stesse, ma a farmele è una seconda ragazza. Poi una terza, le stesse domande. Senza i miei bagagli arriva il momento della perquisizione. Mi portano in un ufficio dove compare una poliziotta italiana, il che paradossalmente mi rassicura. E’ passata un’ora e mezza, tra mezz’ora il mio aereo decolla e qualcuno in una stanza vicina alla mia sta controllando i files che ha trovato in una chiavetta che avevo nella borsa e che ritroverò nel bagaglio da imbarcare insieme ai vestiti. I miei vestiti li ritroverò sconvolti, sporchi, la crema solare, tolta dalla tasca in cui era, si è aperta. Nessuno mi dice nulla. Non ho i miei bagagli, né il mio passaporto, e i miei soldi sono poggiati su una sedia accanto ai vestiti che mi sono tolta. Entra una ragazza israeliana e mi invita a seguirla. Anzi, è lei che segue me, e mi seguirà fino all’imbarco e poi sul bus diretto all’aereo, fin sulla pista. Aspetto il decollo. Un po’ turbata. Non sono un’attivista. Sono già stata in Palestina, ma per lavoro, sono un’archeologa. Non c’è motivo per temere il mio ingresso, né per spaventarmi con un interrogatorio simile. Non sono in Palestina, non sono in Israele. Sono a Roma, all’aeroporto di Fiumicino, al Terminal 5.

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