Ottobre 2012: La Creatività del Comune

Spesso chi passa al Cinema Palazzo domanda come vada la trattativa con le istituzioni e se ci sono novità.
Alla prima domanda rispondiamo che non c’è nessuna trattativa. Alla seconda rispondiamo con convinzione di Sì!

Proviamo a spiegarci: qual è la novità? Un laboratorio su beni comuni e diritto che ogni settimana vede partecipare gli occupanti del Palazzo, studenti, dottorandi e giuristi. Che parte dall’atto dell’occupazione per immaginare nuove istituzioni. In che modo tutto questo abbia a che fare con l’occupazione del Cinema Palazzo, con la sua stabilità e possibilità di continuare il percorso intrapreso, lontano dal pericolo di uno sgombero – è questa in fondo la domanda che sta a cuore alle persone che vengono al Palazzo – è presto detto.
Semplicemente non ci sembra interessante alcuna trattativa fra gli occupanti e le istituzioni che lasci da parte la cittadinanza e la città. Una città che, per noi, è sempre più attrice e orizzonte della pratica di costruzione collettiva di un bene comune.

Il Cinema Palazzo è uno spazio privato che è diventato pubblico, che ha fatto dell’autonomia la cifra del proprio agire, che pratica forme sempre più diffuse di gestione, che aspira a definirsi come modello traducibile di autogoverno. Obiettivi di questo genere non possono essere in alcun modo praticati attraverso trattative private.

Questo è il modo che abbiamo individuato per costruire una trattativa pubblica per il Cinema Palazzo, spostando in avanti i termini della questione: da mera difesa di uno spazio, a discorso complessivo sull’autogoverno dei Beni Comuni, su un rinnovato rapporto tra cittadini e istituzioni, che a partire dalla riappropriazione di beni e servizi, configuri nuove forme di ripartizione dei poteri tra vecchie e nuove istituzioni.

Il lavoro che stiamo portando avanti sul diritto, non inteso quindi come campo di protezione per l’esperienza del Cinema Palazzo, ma come terreno di conquista ed esercizio di rapporti di forza, non ci vede isolati a livello nazionale. Cogliendo una tensione costituente che va molto oltre noi, è questo un terreno di indagine, azione e immaginazione politica che vede impegnati molti dei soggetti protagonisti del “Contagio” delle nuove occupazioni che stanno attraversando l’Italia.

Crediamo sia importante rendere pubblico quello che viene prodotto dal laboratorio che si sta tenendo al Cinema Palazzo, perchè possa divenire patrimonio condiviso e terreno di confronto pubblico con quanti vorranno cogliere questa sollecitazione, siano essi singoli cittadini o realtà associative e politiche. Iniziamo pubblicando le linee guida dell’intervento che abbiamo tenuto il 27 e 28 Ottobre nell’ambito del Seminario di Uninomade, al Teatro Valle Occupato.


Si tratta di spunti che offriamo e che si sono alimentati delle riflessioni sviluppate in una serie di incontri con gli occupanti  del  TeatroValle e altri attori e compagni del viaggio verso il “comune”.

La dimensione costituente del «comune»

Partiamo dalla centralità e dall’urgenza storica della pratica prodotta per costruire beni comuni, ritenendo che i modelli giuridici sono chiamati a misurarsi, più che con l’arretramento della sovranità statale, con il rapporto tra costituzioni e autonomie sociali e la pretesa regolativa che le prime hanno sulle seconde.

In questo senso non ci interessa schierarci per la difesa ad oltranza della Costituzione né per la sua demolizione assoluta ma ricercare una relazione dialettica con quegli istituti in cui ravvisiamo un possibile interstizio creativo del comune e dunque praticare incursioni nel diritto, riappropriandoci per noi e per altri di uno strumento di affermazione delle lotte e dell’azione collettiva, di un altro campo di battaglia.

Sempre più i movimenti e le esperienze collettive, inoltre, prendono parola su principi costituzionali non per custodirli ma poiché si percepiscono e pongono in una logica autonomamente costituente e istituente e, da quell’assetto partitico, politico e governativo ormai in progressiva dissoluzione, partono per costruire diritti e forme di autogoverno. Praticano rotture dall’interno, tracciano il nuovo percorrendo la trasformazione.

La pratica dell’autogoverno genera sistemi di relazione, funzionamento, gestione e regolazione, che abbattono i confini della soggettività determinata, per innervarsi in una composizione sociale difficile da circoscrivere in confini territoriali classicamente intesi, o in maglie legate alla produzione e al lavoro. Le pratiche finiscono per prefigurare naturalmente dei modelli, la cui traducibilità ne fa dei prototipi di nuova istituzione.

 

L’azione oltre la rivendicazione: costruire autonomia, praticare l’autogoverno

Partire non dal bisogno né da sostantivi istituzionalizzati (educazione, produzione culturale, sanità) ma dall’azione stessa vuol dire perseguire un piano reale di autonomia. Fare arte e cultura realizzando direttamente ciò di cui abbiamo bisogno, svela le capacità collettive di soddisfare tali bisogni, riportandoli a una prospettiva del possibile, a una modalità orizzontale e cooperativa, oltre una posizione puramente rivendicativa.

Ciò consente di sottrarsi alla dominazione delle nostre vite e dei nostri corpi. Praticare in modo diretto ciò di cui abbiamo bisogno e con ciò erodere la pervasività del biopotere ci consente di avviare processi costituenti di nuove istituzioanlità che siano avamposti per noi e per altri, spazi che rendono immanenti le lotte, nodi d’aggregazione e di propulsione.

 

Contro la speculazione: la legittima illegalità

La pratica dei beni comuni non vive, tuttavia, fuori dalle lotte e dall’immanenza di queste ultime. In tal senso, individuare tra i capisaldi del percorso del Cinema Palazzo la lotta alla speculazione, è molto più che un elemento narrativo. La riappropriazione del Cinema Palazzo sovverte il rapporto succube con cui la metropoli subisce la speculazione edilizia, gli abusi operati dai grandi proprietari, il sistema di potere e corruzione che questo tipo d’economia determina. Affermare il principio della legittima illegalità contrapposto alla legalità illegittima, significa mettere in discussione il sistema di regole vigenti mentre già se ne sta scrivendo uno nuovo nelle pratiche.

L’uso (sempre) politico del diritto non si estende solo nell’individuazione di strumenti giuridici che possano strategicamente sostenere l’azione ma nella capacità ri-creativa del diritto e non solo del diritto codificato ma anche di quello consuetudinario e di quello statuito giudizialmente.

Senza mai dimenticare che il diritto registra le modifiche determinate dal mutamento dei rapporti di forza in campo. In questi termini è possibile leggere la sentenza del Tribunale Civile di Roma che nega il reintegro in possesso della struttura da parte della Camene spa. Il diritto non coincide esattamente con la legge, ma è produzione di nuove pratiche, di nuove convenzioni, di nuovi precedenti. La forzatura che il Cinema Palazzo ha prodotto ha un’immediata ricaduta nella produzione di nuova giurisprudenza che la sentenza significa.

Realizzare diritti: il diritto alla cultura

La necessità di uno spazio destinato alla cultura e alle culture si è posto non come obiettivo o oggetto della battaglia ma come sostanza stessa dell’azione. Connettere la lotta alle speculazioni urbane alla centralità della dimensione culturale del vivere è stato prima un riflesso immediato, istintivo, impensato, poi un processo politico che si è chiarito e delineato facendo. Rivendicare l’urgenza di una rivoluzione culturale è un modo per far vivere questo spazio, riscoprendo una sua vocazione originaria, rinnovata da un bisogno diffuso. Il bisogno di relazione, socialità, sottrazione dalla monetarizzazione ininterrotta delle esistenze, questo agire ha costituito un modo per spezzare l’ideale dell’homo œconomicus spinto da scelte individualistiche e utilitaristiche, che pervade non solo l’economia ma acriticamente anche una politica ostaggio della finanza, oltre che un ordinamento ispirato da un’antropologia liberale.

Le radici della nostra resistenza affondano quindi nella dimensione umana e creativa dello stare al mondo, all’interno della quale rivendichiamo la centralità della cultura come nuova necessità del vivere, necessità irriducibile, inalienabile, irrinunciabile.

Scardinare la proprietà privata

Le nostre esperienze producono pratiche riappropriative collettive e in questo modo scardinano il diritto di proprietà.

Le nostre esperienze si oppongono ad una visione essenzialmente assolutistica della produzione di norme e privatistica della proprietà, praticando la riappropriazione collettiva  lo smentiscono e lo disperdono e rinviano a diversi modi di possedere che sono, altresì, diversi modi di appartenere a un territorio e alla città.

Oltre le forme classiche di produzione e lavoro e verso un diritto alla città

La città costituisce l’orizzonte principale in cui si riarticola il conflitto contemporaneo.

Tramontata l’organizzazione fordista del lavoro e col passaggio a una riorganizzazione su scala globale del mercato e dell’economia, la città appare lo scenario obbligato per il rinnovamento e la sopravvivenza del capitalismo. Il capitalismo ha bisogno dei processi di urbanizzazione per assorbire i prodotti eccedenti che produce in continuazione. La sovrapproduzione è assorbita dall’urbanizzazione e viceversa. Il diritto alla città come controllo collettivo della stretta relazione fra urbanizzazione, produzione e uso delle eccedenze di capitale, diviene uno degli obiettivi principali delle lotte politiche. I movimenti sociali si qualificano sempre più come parte costituente della dialettica politica urbana, capaci di alternare strumenti di contestazione a modalità creative ed immaginative d’azione e di proporre modelli alternativi di democrazia urbana radicale.

 Processi di soggettivazione e commoning.

Le soggettività che si catalizzano intorno al comune costituiscono esperimenti di cittadinanza che superano l’idea di comunità territoriale o comunità soggettivamente definita e li ridefiniscono attraverso forme allargate di riappropriazione. Facendo riferimento al carattere relazionale dei beni, le pratiche costruttive del bene comune, propongono un’idea di cittadinanza come adesione a un progetto, non schiacciata su un’appartenenza a confini amministrativi (fondata anch’essa su una visione di tipo proprietario e censitario) ma intesa come capacità di cooperare per la realizzazione di un processo comune.

La cittadinanza diviene soggettività che si aggrega attorno ad un’azione finalizzata a creare una città-“opera” collettiva incentrata sul valore d’uso e non una città-“prodotto” legata al valore di scambio.

 Oltre la comunità territoriale

Essendo esperienze basate su relazioni di riconoscimento e cooperazione ampia non riproducono ideali nostalgici di comunità chiuse e nemmeno all’opposto si riferiscono all’ideale postmoderno di un city user che attraversa spazi molteplici senza aderire ad alcuna collettività ma declinano un’idea di comunità ampia e reticolare, fluida e multilivello mettendosi in relazione con diverse soggettività locali e tra loro su un piano nazionale ed europeo.

Gli Usi Civici non ci interessano in una prospettiva di riconoscimento immediato e diretto ma come forme perturbatrici dell’assetto proprietario e statalistico, per la potenza arcaica ed evocativa del collettivo e per lo sviluppo di un orizzonte discorsivo che indaga un altro modo di possedere che è un modo nuovo di essere cittadini.

Ci interessa tradurli, forzarli, reinventarli. Gli Usi civici sono legati alla terra, a bisogni materiali, a una comunità, che nel tempo ci è stata restituita come chiusa e definita, la nostra pratica è essenzialmente urbana, legata a bisogni immateriali che assumiamo come centralità del vivere, rivolta ad una comunità aperta e fluida.

A creare appartenenza e titolarità dell’uso sarà la pratica di cura e governo dei béni comuni. E’ attraverso quella che ci si riconosce parte della comunità di riferimento, è attraverso quella che ci si riconosce titolari di un uso civico, inteso doppiamente come diritto di accesso e dovere di cura, gestione e sviluppo del bene nella sua funzione sociale e collettiva.

Diverse sono le sfumature in cui si declina questo diritto/dovere non necessariamente basate né sulla prossimità né sulla formalità dell’appartenenza al territorio su cui insiste il bene ma basta sull’accesso, sull’uso, sulla relazioni e sui legami sociali di solidarietà che costantemente s’instaurano in rapporto alla fruizione del bene.

 Oltre la comunità di gestione: i commons come dispositivi di democrazia diretta e radicale

L’autogoverno dei beni comuni impone altresì la partecipazione collettiva ai meccanismi gestionali che li riguardano da parte delle comunità di riferimento, dando vita così ad una gestione partecipata che prescinde dalla titolarità del bene. Pensiamo che questa comunità debba essere costantemente ridefinita e potenzialmente sempre allargata. La relazione tra chi occupa/si occupa dei beni e il resto della cittadinanza è relazione sempre aperta e osmotica.

Ha in sé l’idea di una restituzione oltre il “noi” delle soggettività che nel “comune” si sono realizzate.  Per questo la tensione è quella di produrre forme di autogoverno fondate su spazi gestiti in modo allargato, destinati a diverse generazioni e culture, destinate a radicare il comune in una prospettiva di cittadinanza protesa verso il futuro e verso l’altro. Spazi quali lo spazio dedicato alla genitorialità, gestito assieme a genitori provenienti dal quartiere e da tutta la città; l’aula studio, aperta progressivamente alla gestione con gli studenti; i progetti che vanno sempre di più nel senso della co-progettazione con altre realtà e gruppi; le residenze che offrono a compagnie tempi e le possibilità di produrre opere che altrimenti non ci sarebbero in un meccanismo stanziale e non episodico sono sperimentazioni che aprono il “comune” alla città con l’idea di contaminare altri soggetti nella pratica progressiva della riappropriazione di spazi fisici e simbolici.

 Verso una pratica federativa e relazionale

La pluralità dei processi costituenti e dei soggetti che le generano e che praticano e forzano il diritto in modo disinibito e autonomo è l’occasione di una pratica federativa e relazionale delle lotte, oltre la frammentazione ma anche oltre la ricerca di una sintesi unica.

Le occupazioni che in un contagio nazionale diretto e progressivo hanno preso forma nel corso del 2011 e 2012 in tutta Italia disegnano una possibile cartografia del “comune” che si pone oltre le singole realtà. Nel rapporto dialettico e multipolare tra le diverse occupazione, ciascuna esperienza ha trovato elementi di crescita e di specificità, ha elaborato e approfondito la propria identità, ha alimentato, attraverso una messa in prospettiva di storie con diverse intensità e durata, repertori comuni d’indagine e di lotta. Ha contribuito a creare una dinamica in parte incontrollabile, profondamente trasformativa, che rendeva immaginabile una ribellione senza il germe del fallimento. Ciò non ha solo generato nuovi avamposti di lotta ma prodotto un avanzamento diffuso della pratica, del pensiero e del discorso sui beni comuni. L’istituzione autonoma, né pubblica né privata che si fonda sul concetto di uso comune e afferma, sin dal momento della sua costituzione, l’esigenza fondamentale di costruire rete con esperienze affini; esperienze con le loro specificità e differenze ma che condividono la stessa capacità costituente e la medesima vocazione universalista (universalista non in termini astratti ma concreti: la parzialità di un’esperienza punta sempre alla sua traducibilità).

L’essere in relazione, il costituire nodi differenti di uno stesso meccanismo reticolare può però essere non sufficiente se non si dà centralità al “processo” costitutivo, andando oltre il solo lato “strutturale”. In questo senso pensiamo che una nuova forma di federalismo oltre lo Stato, possa rappresentare l’apertura di un percorso che metta in relazione le differenti istituzioni del comune. Un processo aperto, pattizio, orizzontale, capace di coinvolgere una pluralità di poteri e d’istituzioni che nascono dall’esperienza dei beni comuni. I beni comuni sono, in effetti, policentrici per natura, il che determina un approccio profondamente democratico sia politicamente (principio di decentramento, di sussidiarietà attiva, di sovranità diffusa e di legislazioni speciali) sia economicamente (i modi di produzione dei beni comuni riducono la nostra dipendenza dal denaro e dal mercato).

 

 English Version

The Creativity of the Common

Nuovo Cinema Palazzo

The following considerations are food for thought derived from and developed throughout a series of meetings and debates with the occupants of the Teatro Valle occupato and other subjects sharing the process of creation of the “common”.

The constituent dimension of the common good

Let’s begin with the centrality and historical urgency of the practice we are producing with the creation of the common good. We believe that what the traditional legal models are now compelled to face is, more than the regression of state sovereignty, the relation between constitutions and social autonomies, and the regulatory claim of the first over the latter.

To this regard, our effort is not employed in the direction of a wholehearted defense of the Constitution, nor towards its absolute abolishment. It is rather aimed at creating a dialectic relationship with those institutions in which we find a potential “gap” for creative intervention, therefore penetrating the legal system, regaining the means of affirmation of our struggle, of collective action, and of a new battleground for ourselves and others.

More and more movements and collective experiences are speaking out on constitutional principles. Again, the aim is not their safeguard: movements perceive themselves and place themselves within an autonomous, constituent and founding perspective, and, starting from a political scenario that is in progressive dissolution, movements are advancing towards the creation of legal rights and forms of self-governance. Movements are creating breaking points from within, tracing new paths by practicing transformation.

The practice of self-governance generates new settings for relations, functioning, management and regulation methods, eliminating the boundaries of specific subjectivities, connecting to a social elements whose composition cannot be inscribed within classic territorial borders, nor within networks linked to production and labor models. The practices naturally prefigure the models. The translation and reproducibility of these models generate the prototypes of new institutions.

Action beyond reclaiming: creating autonomy, practicing self-governance

A concrete plan for autonomy develops from action,  not from institutionalized  nouns (education, cultural production, healthcare). The creation of art and culture, the production of a response to our needs unveil the collective ability to satisfy such needs,  setting them within a perspective of possibility, in a horizontal scenario of cooperation, much beyond a purely demanding position.

These are the means with which we escape domination of our lives and bodies.

The direct practice of our needs, the undermining of the bio political pervasiveness enable us to generate constituent processes, to create new institutional models which constitute a forefront, for ourselves and others, and give life to the places in which we carry out our struggles, that are both a meeting and a starting point.

Against speculation: illegal legitimacy

The practice of common good does not develop, however, outside of the struggles and of their factual nature. In this perspective, the crucial role played by the fight against speculation in the experience of the Nuovo Cinema Palazzo represents much more than just a narrative element. The re-appropriation of the Cinema Palazzo by the occupants has inverted the balance in a power play where the city is generally dominated by real estate speculation, by infringement of local building regulations, by a consequent corrupt political and economic system. The affirmation of the principal of illegal legitimacy against legal illegitimacy, translates into confronting the current legal system, while a new one is already being written in practice.

The (constant) political use of law not only goes in the direction of determining the legal means to strategically sustain our action, but extends to the re-creation of legislation not only as regards encoded law, but also including common law and the judicially held law.

We are aware that legislation registers the modifications determined by the change of balance in current power plays. The court ruling with which the Rome civil court denied the reintegration of possession of the structure to the Camene spa can be read in this perspective. The legal system does not directly coincide with the law.

The practice of rights: the right to culture

The need for a place destined to culture, many kinds of it, is not the aim and the object of our struggle, it is on the contrary the actual substance of our action. The first step we took was to connect the fight against real estate speculation to the issue of the cultural dimension as central in life.  This passage was instantly and instinctively achieved without the need for thought; it later became a political process gaining clarity along the way. The awareness of the urgency of a cultural revolution is what drives the creative action of the Cinema Palazzo, the rediscovery of  its original vocation, in response to a widespread demand.

The need for social relations and exchange, the subtraction of our existence to the relentless monetary domination of life: these are the practices that have determined the means to break the idea of a homo œconomicus whose choices are driven only by individualistic and utilitarian considerations, an idea dominating not only the economic sphere, but also the un-critical realm of politics held hostage by financial dictates, and a legislative system inspired by liberal anthropology.

On the contrary, our resistance is deeply rooted in the human and creative dimension of our existence in which culture plays a leading role. We assert the importance of culture as a basic and fundamental need: not reducible, inalienable, indefeasible.

Demolishing private property

Our experience produces practices of collective re-appropriation that question private property.

Our experience challenges the essentially absolutist view typical of legislation concerning private property. By practicing collective re-appropriation, our experience contradicts, disperses and reformulates this view, referring to a different meaning of possession, focusing on the way we relate to our territory and to our city.

Beyond the classic forms of production and labor, towards the right to citizenship

The city is the main scenario in which contemporary conflict takes place.

Fordism labor organization surpassed, the re-organization of the market economy on a global scale designates the city as the place for capitalism to attempt its renewal and survival. Capitalism requires ongoing urbanization processes, in order to absorb the exceeding products continually being produced. Overproduction is absorbed by urbanization and vice versa. The right to citizenship, intended as the collective control of this strong link between urbanization, production and use of the capital surplus, represents a main goal in the political struggle. Social movements are becoming more and more a constituent voice on the metropolitan political scene, with the ability to alternate means of protest to creative and imaginative forms of action, putting forth alternative models of radical metropolitan democracy.

New subjects and “commoning”

The new subjects revolving round the creation of the common good are giving rise to new experimental forms of citizenship reaching beyond the concept of territorial community and subjectively defined community , redefining them through broad experiences of re-appropriation. Referring to the relational nature of goods, practices building the common good achieve the idea of citizenship as an adherence to a project, not merely limited to administrative guidelines (in accord with a property and census oriented view) but thought of as the ability to cooperate towards obtaining a common process.

Citizenship becomes the subject whose shared aim is to create a collective city -“project” centered on its use value, opposed to a “product”- city, based on trade value.

Beyond the territorial community

The experiences we are focusing on are based on relations of recognition and broad cooperation and do not intend to reproduce a nostalgic view of closed communities nor, on the contrary, do they portray the post-modern ideal of a city user crossing multiple spaces without ever belonging to a collective reality. These experiences bring forth the idea of community as a vast network functioning fluidly on different levels, entering into relation with local realities as well as with each other on a national and European scale.

We are not interested in rights of common from a standpoint of immediate or direct recognition, but as a troublesome element to disrupt the private law and state structures. Rights of Common evoke an archaic and collective strength, and interest us concerning the development of a scene of discourse that addresses a different way of possessing, and a new way of being citizens.

Our effort goes in the direction of translating, modeling and re-inventing the rights of common. The rights of common are linked to the land, to material needs, to a community depicted over time as closed and defined.  On the other hand, our experience is essentially linked to the city, to immaterial needs that are central in our lives, and to an open and free/accessible community.

The practice of care and management of the common good is what will determine the belonging and the right of ownership use. This practice is what determines our belonging to a community, defining us as holders of a right of common intended with a double meaning: the right to access and the duty to tend to, administrate and develop the common good in its social and collective function.

These rights and obligations are not necessarily based on territorial proximity or on the formal geographical belonging of the common good, but on the access, the use, on the relations and social ties that are constantly being generated in relation to the use of the good.

Beyond the governing community: commons as a dispositif (device) of direct and radical democracy

The self-governance of common goods also requires participation in the collective manage mechanism which involves the community of reference and thereby creates participatory management aside from the ownership of the goods. We think this community must be repeatedly redefined and potentially expanded. The relationship between whoever occupies or whoever cares for these goods and the other members of the populace is always open and osmatic.

The idea of a restitution beyond the subjective “we” achieved in the “common” is self-contained. For this reason the tension is in producing self-governance based on the spaces managed in an expanded way, targeted on diverse generations and cultures, on rooting the community in a prospective citizenship looking to the future and on high. Spaces like the space dedicated to parenthood, managed together with parents arriving from the neighborhood and throughout the city; a study room progressively opened to student management; projects which increasingly range in the direction of co-planning with others and groups; artistic residencies which provide companies with the time and possibilities for producing works which would otherwise not come about in a special mechanism, and not episodic, open to the “common” of the city with the idea of contaminating other subjects in the progressive practice of expropriating physical and symbolic spaces.

Towards a federative and relational practice

The plurality of constituent practices and the subjects who generate and practice them and force them on in an uninhibited and autonomous way provide the occasion for a federative and relational practice for the struggle beyond fragmentation and also beyond the search for a single synthesis.

The occupations which spread nationally in a direct and progressive fashion took shape in all of Italy in 2011 and 2012 to thereby draw a map of the “common” raised beyond the single realities. In the dialectic and multipolar relationship between various occupations, each experience contained factors of growth and specifics in elaborating and studying its own identity and, in putting history into perspective with various intensities and duration, fueled common repertoires of investigation and struggle. Each contributed to the creation of a dynamic which was, in part, uncontrollable, deeply transformational, making rebellion without the seeds of failure imaginable. Not only did this generate new outposts for the struggle but also produced the practice, the mentality and discourse on the common good. Independent institutions which were neither public nor private based on the concept of common use and affirming the fundamental the need for creating networks of similar experiences from the time of their founding; specific experiences with their differences but which shared the same constituent capacity and same universal vocation (universal not in abstract terms but very real; the partiality of an experience always looks to translatability).

Being in a relationship, creating different nodes in the same mechanism net may, however, not be sufficient if it fails to provide a core to the constituent process going beyond the mere “structural” side. In this sense, we believe that the new form of federalism beyond the state can come as the opening of a path to build relations among the different institutions of the common. A process which is open, agreed to, horizontal and capable of involving a plurality of powers and institutions arising out of the experience of the common good. Common goods are actually polycentric in nature and this require a deeply democratic approach (the principle of decentralization, a subsidiary status, diffuse sovereignty and special legislation) as well as an economic approach (the ways of producing common goods which lead to our dependence on money and the markets).

 

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